Bugie piene di zucchero

C’era una volta una fabbrica e c’era una volta un marito volenteroso, sano e forte. E’ lì che Anna e Marco si conoscono e legano fino al giorno in cui lo stabilimento dove entrambi lavorano fallisce e chiude. Lui muore in un incidente stradale a distanza di poche settimane e lei, 35 anni da compiere all’indomani del giorno del funerale, che vede i ceri da cimitero, e non le candele, sulla sua torta funebre. Vedova e disoccupata, si ritrova «il mondo addosso e due bambini da crescere da sola, sola peggio di un cane, dall’oggi al domani, che tutto attorno a te diventa atroce in un istante. Le rate della casa da pagare appena iniziate, le pulizie nelle case e l’assistenza notturna a un anziano scorbutico un po’ maiale, che non sono sufficienti a coprire le spese di mese in mese». Tossisce ripetutamente la mia intervistata, finendo la sigaretta, e la gomma da masticare in bocca per non accenderne una dopo l’altra, riprendendo a parlare della sua vita attuale senza ombra di emozione nella voce.
«Come se non bastasse, il ristorante che mi ha assunta taglia il personale. I proprietari però sanno della mia situazione e decidono di tenere me il sabato a cena, a pranzo la domenica. Ma il vecchio che accudisco decide che la romena è più brava a lavargli la schiena e fargli una vertenza. Lavoretti che non ti garantiscono il saldo delle bollette e la compagnia telefonica che non ci mette molto a staccare il servizio con i tuoi figli sempre pronti a lamentarsi, e rimproverarti, che non capisci. Che senza Internet non possono fare niente: le ricerche e i compiti. Mamma perché non l’hai pagata? Come faccio a studiare? A scaricare la musica e a sentire i miei amici? Loro vorrebbero farmi credere, per rimproverami la mancanza di certezze dopo la perdita del padre». Anna pensa, riflette e cerca intanto che lascia curricula nei negozi, sostiene colloqui, frequenta corsi di inserimento nel mondo del lavoro anche se, per accedere ai tirocini, devi avere massimo 29 anni e al titolare non conviene “arruolarti”. Si rivolge al Centro per l’impiego dove le spiegano che non può usufruire dei bonus occupazionali per chi assume donne under cinquanta compiuti e così, lei mi spiega a sua volta, «tu prendi e batti senza avere nessuna formazione alle tue spalle».

Una donna, Anna, la prima intervistata, l’unica che continuo a sentire in occasione delle feste, cosciente di non essere fisicamente bella e libera da impegni familiari per poter fare la ballerina di lap dance nei locali notturni. La figurante di sala o la ragazza da spettacolo nei migliori club privati italiani, con alloggio e driver gratuiti, e i guadagni che possono arrivare a 3.000 euro al mese facendo gli spettacoli in privato da dieci minuti. Una donna, una come Anna, che non lo può avere un composit fotografico, realizzato da qualche fotografo amatoriale in cambio delle tue pose per il suo portfolio personale, da inoltrare alle agenzie che ingaggiano anche donne mature, non più giovani, piacenti e disinibite. La disperazione, Dio però esiste, la vede e un po’ provvede. Anna, pochi giorni dopo aver provato la vita sulla strada, conosce una vecchietta, «vedova lei pure senza più un marito disertore», che vive con due gatti grossi come maiali, «non escono mai», e che ogni mese prende una pensione non lorda come quelli. L’anziana signora non ci deve dormire sopra per convincersi di fare una buona azione e l’indomani, nell’arco di una chiacchierata disperata da entrambe le parti contraenti, si convince a lasciarle quella stanzetta inclusiva di un bagnetto messo male per 300 euro al mese che, nel giro di una settimana, diventa una imperfetta casa di tolleranza aperta nei giorni feriali:
«Mai a Natale, Pasqua, Pasquetta o di domenica».
Anna toglie le foto, i centrini all’uncinetto realizzati «quando ancora la padrona di casa ci vedeva», rimuove il crocifisso sgargiante per non ricordare il comandamento numero nove ai suoi clienti. Pratica, la rimette a nuovo portando qualcosa da casa, frugando nei quartieri alti su consiglio della vecchietta che, sveglia, le suggerisce di spacciarla per la madre. Di dire che ha l’Alzheimer putacaso a qualcuno fosse venuto in mente di passare senza prima annunciarsi, «gli avventati».
La ricordo centimetro per centimetro la stanza dell’amore marcio. Un letto andato, caparbio a stare in piedi, facilitato dalla tipologia di rapporto in prevalenza consumato. Un comodino troppo piccolo per tenerci le cose dentro e un armadio dalle ante difettose che, ogni tanto, cadevano all’improvviso facendo un tonfo dell’inferno. Una camera fredda e vuota al primo impatto, ma professionalmente fornita di fazzolettini profumati, preservativi, oli speciali «perché col tempo impari a specializzarti» aveva assicurato. Dentro la stanza subaffittata da Anna, scarsamente illuminata per via di un avvolgibile bloccato mai riparato, ricordo la cassapanca rivestita con la carta adesiva dei fumetti anni ’50 dove tenere, tenendoceli ancora, gli «abitini presi al negozio dei cinesi» insieme alle riviste porno lasciate da un cliente la prima volta che era stato a trovarla. «Per quando impiegano tempo. A certi capita di avere un blocco». Nell’armadietto azzurro in bagno, e sopra attaccate le figurine sbiadite dei calciatori vincenti anni ’70, i medicinali, i rossetti, le matite e gli ombretti dai colori sgargianti per mascherarsi, e non potersi riconoscere, volendo un domani accusarsi. Nel bagnetto c’erano anche un accappatoio, un asciugacapelli preso con i punti della spesa in aggiunta ad una piccola differenza che lei, controvoglia, aveva dovuto fare e un collutorio alla menta per bruciare la sensazione dell’ultimo pene in bocca. Serrata all’inizio, aveva imparato ad essere «più aperta» tra una prestazione forzata e l’altra, per la paura di tornare a casa a mani vuote:
«Di non avere i soldi per il pane, il latte o la ricarica ai telefoni dei ragazzi è successo ed è brutto, mortificante».
E poi c’erano le cose che vedi nei bagni comuni. Una cuffia plastificata per non bagnare i capelli contrassegnati da una ricrescita male assortita ai suoi capelli neri. Le infradito maculate orrende in omaggio a una rivista che leggeva sua figlia, «io non butto niente, tutto serve lo so bene» mi aveva ammonita, uno specchio quadrato attaccato al muro con un chiodo leggero messo alla peggio. In vista, un set di asciugamani in crespo cotone che lei preferiva non utilizzare, trovando più igienico i rotoli di carta, offerti dall’anziana signora alla consegna del primo affitto. In cambio aveva ricevuto un portachiavi portafortuna a forma di civetta realizzata interamente in stoffa unta di olio di girasoli. «Impasta dolci in continuazione. Ha tanti nipoti e quattro figli tirati su senza l’aiuto di nessuno», mi aveva raccontato a proposito dell’affittacamere. La doccia provvista di acqua calda da usare con cautela, un tappetino antiscivolo grigio infeltrito, un paio di bagnoschiuma al cocco nel formato convenienza da un litro. Le saponette alla frutta nel cestino confezionato da scartare, gli altri prodotti di sottomarca e infine una tendina bianca per nascondere la muffa sul muro. «Certe volte penso di doverlo rendere più decente questo posto. Vorrei imbiancare le pareti, fare spazio, abbellirla. Solo che la proprietaria mette il muso come un bambino ad ogni cosa che chiedo» era insorta, e i numerosi peluche ricevuti insieme alle scatole di cioccolatini assortiti prossimi alla scadenza, che bastavano a dare un po’ di tono spento all’ambiente misero. Perché i suoi frequentatori non erano di quelli che si potevano permettere gadget di valore, oltre ai prezzi bassi che lei stava a proporre, disposta inoltre a riabbassare le tariffe base del listino. Comuni, non ricchi e tecnologicamente arretrati in merito al fiorente mercato del sesso virtuale, dopo averla abbordata al telefono, e consumato il rapporto accordato presso l’abitazione privata, in macchina i più circospetti di loro, nessuno le chiedeva di essere accompagnato in qualche viaggio di lavoro. Per quello, c’erano le escort, pure i muri lo sapevano. Nei festivi, specie le domeniche, restavano in famiglia. Come gli utenti delle chat, le portavano fuori. Il cinema scadente, il parco, qualche volta per fortuna anche i nonni, il circo ahimè con gli animali e, dulcis in fundo, la pasticceria che si accompagna bene al caffè corretto, prima di allungarsi da soli sul divano e fantasticare su Anna «e il cazzo duro» ripetendo le parole scortesi di quelli più maleducati.
«Mia tu mi chiedi che aspetto hanno gli uomini che pagano. Belli, brutti, bassi, alti e magri, o grassi, io non ci bado. Fisso la punta delle scarpe ai loro piedi e, tra tante preoccupazioni, dimentico sempre di prendere un tappeto morbido per poggiare le ginocchia mentre lavoro e prego Dio di non dovermi più piegare un domani a fare quello che da me vogliono. «Un bel pompino». «Succhiami l’uccello». «Leccami il cazzo». – In quel modo sentiva l’odore delle loro calzette surriscaldate. –
Maschi con i buchi sui calzini, tra quaranta e i sessantacinque anni, i consumatori di Anna che passavano dal lunedì al venerdì davanti quella palazzina degradata dove, in compenso, restava semplice parcheggiare dovendo fare una visita veloce. Così dicevano cercandola alla seconda carta sim attivata e lei che confermava gli orari delle pulizie negli appartamenti prima che fosse scesa la sera, il buio fitto, quando rispondeva in presenza di altre persone o dei suoi figli. Sesso orale nella maggior parte dei casi per un guadagno giornaliero pari a cento, centoventi euro, che loro maturavano volentieri anche per la tranquillità del posto e una vecchietta che si dilettava a preparare ciambelloni soffici, e altri dolci privi di conservanti, per quei ragazzi che pensavano che la loro mamma, nel caso in cui non fosse rincasata, era perché la donna accudita aveva avuto un malore ed era bene non lasciarla da sola durante la notte. «Ma sono pochi quelli che incontro dopocena. Ho paura a prendere i mezzi. Questa è una zona di periferia famosa per lo spaccio», continuando a parlarmi Anna con la tranquillità di chi si è rassegnata. «Devo recuperare i giorni che ho i ragazzi influenzati, che c’è una pratica da sbrigare in banca o i colloqui con gli insegnanti. E come si è fatto giorno, pure se non ho chiuso occhio tutta la notte, corro a casa a preparare la colazione, e i dolci che lei continua a mandare infiocchettati sulla tavola», forse sentendosi l’anziana signora in colpa per aiutare la loro mamma a dire le bugie di zucchero. «Ho provato sulla strada e rinunciato in partenza dopo che un’altra disgraziata è stata picchiata. C’è chi vuole diventare il tuo uomo, magari per non pagare, e allora devi rimettere la fede al dito lasciata da quel giorno sotto il cuscino del suo lato e che tu, messa alle strette, hai pensato di rivendere. Riempi il frigo un mese quando non ti lascia scappare le offerte 3 x 2 al negozio».
E Anna, non inscenava storie, obbediva e li accontentava perché si era adeguata alla sua nuova vita: «Ti abitui a tutto alla fine. È solo questione di tempo. E con 1.300 euro, 1.400 al mese, le merendine risparmiate, ti puoi permettere anche il lusso di riprendere a fumare. Di prenderti un cancro nel peggiore dei casi o di ingiallirti i denti nel migliore dei mali. Riesci a farcela senza lambiccarti più il cervello. A prendertela con tuo marito che ti ha lasciata in mezzo alla strada pur avendoti promesso che, su di lui, avresti potuto contare, in salute e malattia», finché la morte non li aveva separati non riuscendo però lei a lasciarlo andare:
«Parlo con lui quando i ragazzi non sono in casa per spiegargli che non ho scelta, lo devo fare, e rinuncio ai clienti raggiunto l’indispensabile a vivere».